Guarire dalla morte: l’immortalità è solo per i più ricchi

Guarire dalla morte

La morte non viene di solito concettualizzata come una malattia. È un evento naturale che accade a tutti gli esseri viventi e fa parte del ciclo di vita. In alcuni casi, la morte può essere causata da una malattia, ma non è essa stessa una malattia. La morte è spesso vista come un passaggio verso un’altra fase dell’esistenza, a seconda delle credenze individuali o culturali. Nonostante questo, tra filosofi e startup si sta facendo strada ormai da tempo l’idea che dovremmo combattere la morte – proprio come ogni altra malattia. Le implicazioni etiche di questo approccio sono tutt’altro che banali.

Immortalità e trapianti di testa

Nonostante la discussione sull’immortalità accompagni da sempre l’immaginario collettivo attraverso miti e fiabe, e sia stato al centro di vari progetti letterari (inclusi i nostri Foscolo e Pavese) e cinematografici (il mio primo ricordo “pop” sul tema è senza dubbio la rappresentazione cinematografica del Sacro Graal e del suo custode di Spielberg in Indiana Jones e l’ultima Crociata, ma in altra sede ho discusso gli spunti della recente serie televisiva Altered Carbon: cfr. “Altered Mortality: Why the Quest for Immortality is Regaining Visibility in the Media”, NanoEthics, 13.3 (2019), pp. 255-259), solo recentemente la nostra società si è effettivamente avvicinata in maniera prepotente a rendere la ricerca dell’elisir di eterna giovinezza più vicina alla realtà – anche se con speculazioni più o meno credibili sull’effettiva fattibilità di alcune delle tecniche proposte per perlomeno allungare significativamente la vita, se non “curare” la morte in maniera definitiva.

Già nel 2007 Aubrey de Grey ci ammoniva che l’invecchiamento è come una malattia – né più né meno del cancro o dell’Aids – e quindi bisognosa di essere curata. Sulla scia di questa tesi radicale, vari progetti altrettanto controversi sono venuti alla ribalta. Uno di questi includeva il progetto di trapianto di testa tra esseri umani portato avanti dal chirurgo italiano Sergio Canavero e il suo collega cinese Xiaoping Ren. Progetto accolto con estremo scetticismo dalla comunità scientifica – e probabilmente a ragione, visto che è scomparso dai radar da qualche anno ormai (cfr. M. D. Garasic, A. Lavazza, “Why heaven is not about saving lives at all”, AJOB Neuroscience, 8.4 (2017), pp. 228-229). A livello concettuale però, è interessante notare come, sulla falsariga di de Grey, Ren e Canavero utilizzano la nozione di invecchiamento come malattia, suggerendo che l’arrivo di cloni umani (da utilizzare come “basi” sulle quali di volta in volta trapiantare la nostra testa) aiuterebbe la società ad affrontare l’aumento delle disparità economiche previste come risultato dell’invecchiamento della popolazione. Un punto piuttosto debole, in quanto anche i cloni sarebbero – almeno inizialmente – estremamente costosi.

Morte e filosofia

Quali potrebbero essere le implicazioni filosofiche di rivoluzionare il nostro modo di rapportarci alla morte come malattia da curare? Ad esempio, se si vedesse la morte come una malattia, ci si potrebbe aspettare che sia possibile curarla o prevenirla, come si fa con le altre malattie. Ciò potrebbe portare a una maggiore enfasi sulla medicina e sulla scienza per cercare di sconfiggere la morte e prolungare la vita umana il più a lungo possibile. Altri potrebbero sostenere che la morte è inevitabile e che cercare di evitarla o rimandarla è futile o addirittura ingiusto. In questi casi, si potrebbe concentrare l’attenzione su come vivere la vita al meglio e come affrontare la morte in modo dignitoso e sereno, anziché sulla sua prevenzione o cura. Più strutturalmente, la concezione della morte come una malattia potrebbe avere diverse implicazioni filosofiche a seconda di come viene interpretata e di come viene affrontata. Accennando una rapida – e alquanto limitata- applicazione al caso proposto qui delle principali teorie etiche (consequenzialismo, deontologia e etica della virtù) utilizzate in etica medica, potremmo suddividerle così.

Per primo, il consequenzialismo è una teoria etica secondo la quale la moralità di un’azione viene valutata in base alle conseguenze che essa produce. Secondo questa prospettiva, l’azione più morale è quella che produce le conseguenze migliori o più desiderabili. Ci sono diverse varianti del consequenzialismo, come l’utilitarianismo, secondo il quale le azioni morali sono quelle che producono il maggior benessere per il maggior numero di persone. Un approccio consequenzialista potrebbe concettualizzare la morte come una malattia se si sostiene che l’obiettivo principale dell’etica è quello di produrre le conseguenze migliori o più desiderabili. In questo caso, se la morte viene vista come una malattia, allora cercare di prevenire o curare la morte potrebbe essere considerato moralmente giusto, poiché questo potrebbe produrre le conseguenze migliori per le persone coinvolte.

La deontologia è una teoria etica secondo la quale ci sono alcune regole morali (o “doveri”) che devono essere seguite indipendentemente dalle conseguenze. Secondo questa prospettiva, alcune azioni sono moralmente giuste o sbagliate in sé e per sé, indipendentemente dalle loro conseguenze. Ad esempio, l’etica deontologica potrebbe sostenere che l’omicidio è sempre sbagliato, indipendentemente dalle conseguenze che ne derivano. La deontologia potrebbe concettualizzare la morte come una malattia se si sostiene che ci sono alcuni doveri morali che devono essere seguiti indipendentemente dalle conseguenze. Ad esempio, se si sostiene che c’è un dovere morale di proteggere la vita umana e di preservare la salute, allora cercare di prevenire o curare la morte potrebbe essere considerato un dovere morale, indipendentemente dalle conseguenze che ne derivano.

L’etica della virtù è una teoria etica secondo la quale le persone dovrebbero sviluppare e praticare determinate virtù morali, come la saggezza, la giustizia, il coraggio e la temperanza. Secondo questa prospettiva, le persone moralmente virtuose sono quelle che hanno sviluppato queste virtù e le mettono in pratica nella loro vita. L’etica della virtù si concentra sulla formazione del carattere e sullo sviluppo di tratti morali positivi, piuttosto che sull’osservanza di regole morali specifiche o sulla produzione di determinate conseguenze. L’etica della virtù potrebbe concettualizzare la morte come una malattia se si sostiene che ci sono alcune virtù morali che dovrebbero essere sviluppate e praticate. Ad esempio, se si sostiene che la compassionevole cura degli altri è una virtù morale, allora cercare di prevenire o curare la morte potrebbe essere visto come un modo per mettere in pratica questa virtù e aiutare gli altri. Tuttavia, l’etica della virtù potrebbe anche sostenere che accettare la morte con dignità e serenità quando non è possibile evitarla è una virtù morale, a seconda delle circostanze specifiche.

Ci sono poi delle implicazioni di giustizia sociale e accesso alle risorse che si intrecciano in maniera profonda con recenti sviluppi legati a biotecnologie e il rallentamento dell’invecchiamento.

Plasma nuovo, dinamiche vecchie?

Come discusso con l’amico e collega Andrea Lavazza, le aspettative che le trasfusioni di plasma sanguigno (da giovani a meno giovani) stanno suscitando meritano grande attenzione (cfr. “Vampires 2.0? The ethical quandaries of young blood infusion in the quest for eternal life”, Medicine, Health Care and Philosophy, 23 (2020), pp. 421-432). Davvero questa tecnica potrebbe rallentare l’invecchiamento o addirittura far ringiovanire le persone? Recenti studi preclinici e test sperimentali ispirati alla tecnica nota come parabiosi – una tecnica in cui due organismi (tipicamente, un topo giovane e uno “anziano”) vengono uniti chirurgicamente così da creare un sistema circolatorio unico –  hanno suscitato grande attenzione da parte dei media, anche se per ora non ci sono prove evidenti della loro efficacia. Di certo la crescente visibilità che queste ricerche stanno riscontrando è l’ennesima dimostrazione che la tesi di de Grey ha fatto breccia nella nostra società, assumendo un ruolo sempre più centrale nell’agenda scientifica e sociale. In particolare, una serie di startup hanno cominciato a interessarsi all’idea di poter vendere la giovinezza a facoltosi “differentemente giovani” attraverso trasfusioni di plasma dei primi verso questi ultimi. Con profitti non trascurabili ma con una serie di problemi (anche legali per varie di queste compagnie) suscitati da questo nuovo “mercato”. Terapie e tecniche accessibili solo a una frazione della popolazione (per via dei loro costi elevati) sembrano destinate ad aumentare esponenzialmente la disuguaglianza sociale e a produrre conseguenze problematiche.

Le questioni di giustizia distributiva legate all’estensione della durata della vita si concentrano principalmente su questioni legate ai beni materiali, come il reddito e la ricchezza. Tuttavia, spesso non si tiene sufficientemente conto della dotazione genetica di ciascun individuo, che influenza fortemente il benessere personale. Indubbiamente essere portatori di una variante genetica che causa una determinata malattia (ad esempio l’anemia) pone l’individuo in una posizione peggiore rispetto alla maggior parte delle persone che vivono nella stessa comunità, esponendolo a vulnerabilità differenti rispetto alla media anche se benestante o con un buon salario. 

Allo stesso modo, individui che nascono con un corredo genetico “buono” (ad esempio, geni per la longevità tipici dei centenari) che aumenta drasticamente le loro possibilità di vivere una vita lunga e in buona salute hanno un enorme vantaggio comparativo – dal punto di vista di prospettive di salute – rispetto ad altri gruppi di individui. In questo senso, la tradizionale divisione della dotazione sociale tra gruppi privilegiati e svantaggiati può essere combinata e intersecata orizzontalmente con la divisione tra dotazione naturale e dotazione genetica specifica tra gruppi privilegiati e svantaggiati. La rilevanza di questo fattore è stata sottolineata da John Rawls, però la declinazione delle sue tesi a questo contesto meriterebbe addizionale lavoro, ma non in quest’occasione. 

Rimane chiaro che qualsiasi tipo di tecnica o intervento finalizzati a rallentare l’invecchiamento possono essere valutati in maniera differente dall’applicazione di diverse teorie della giustizia rilevanti per questa nuova frontiera della ricerca biomedica. Alcuni hanno una visione riduttiva (e da molti considerata superata), meno interessata al progresso scientifico e più focalizzata sul trattamento, sostenendo che l’invecchiamento è un processo naturale che non ha alcun obbligo di correzione da parte di nessuna delle teorie della giustizia.

L’immortalità è solo per i più ricchi

Tuttavia, se consideriamo la complessiva vulnerabilità dell’essere umano alla luce delle conoscenze oggi disponibili, vediamo che le disuguaglianze che si manifestano nella vecchiaia possono e devono essere oggetto di intervento a vantaggio di tutti, non solo di chi ha vinto la lotteria genetica. Se è possibile vivere più a lungo in buona salute senza essere colpiti dalle malattie tipiche dell’invecchiamento è giusto cercare di studiare più a fondo queste tecniche. Investire nella ricerca e intervenire per ritardare l’invecchiamento cellulare in tutte le fasi della vita potrebbe contribuire alla salute e al benessere dell’individuo all’interno della sua “naturale longevità”, non dovrebbe necessariamente implicare una spasmodica ricerca della perpetua giovinezza o dell’immortalità. In fin dei conti, Ronald Dworkin ci ammoniva a tenere sempre presente che le disuguaglianze che non derivano da scelte deliberate degli individui, ma da circostanze che sfuggono al loro controllo, sono per definizione ingiuste.

Considerando che molte persone trascorrono i loro ultimi anni di vita con malattie tipiche della loro sfortunata estrazione nella lotteria genetica, mentre altri individui invecchiano in buona salute, sembra ragionevole ipotizzare che questo tipo di disuguaglianza debba essere eliminata dalla società se possibile. Al tempo stesso, appare ancora impellente sottolineare che questa nobile causa non può far passare in secondo piano che questo tipo di ricerche possano tollerare la creazione di un sistema in cui pochi monopolizzino l’opportunità di “accesso alla salute”. Dato che scenari in cui pochi ricchi potrebbero esaurire tutto il plasma giovane disponibile sono lontani dall’essere inverosimili, c’è da chiedersi come dovrebbe rispondere la società nella sua totalità, non concentrandoci sul singolo individuo. In questo senso, la domanda è se il pubblico debba sostenere una linea di ricerca che persegue esplicitamente risultati che – almeno inizialmente – saranno profondamente elitari e quindi inaccessibili alla maggior parte di coloro che sono interessati alla terapia in questione. Infatti, dall’utilizzo di plasma da giovani donatori avvenuto finora, è apparso chiaro che, anche a causa della stratificazione per età della popolazione nei Paesi occidentali, questi trattamenti anti età o ringiovanenti difficilmente possono essere accessibili ai più, ma solo a pochi ricchi. La ricerca pubblica, o finanziata con contributi pubblici, dovrebbe essere indirizzata verso terapie che aiutino a ridurre le diseguaglianze genetiche che ci caratterizzano e in alcuni casi creano sofferenza e disparità, ma sempre conscia del contesto sociopolitico in cui i risultati si svilupperanno. Con grande attenzione che questi non abbiano evidenti limitazioni in termini di distribuzione e somministrazione. Dinamiche per certi versi simili le abbiamo viste, con l’imbarazzo di parecchi di noi, molto chiaramente con la patetica distribuzione a livello globale dei vaccini contro il Covid-19. In fin dei conti, invece di curarci dalla morte, dovremmo concentrarci sul far vivere una vita degna a tutti. Anche in termini medici.

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