Ogni nascita è sempre un atto di grande coraggio. In Grecia la felicitazione è na zisei, che significa “che possa vivere, che abbia vita”. E allora, “che la Meraviglia del possibile possa vivere sempre”. Questo non è solo un augurio per la nascita di questa rivista, ma anche un’esortazione rivolta a ognuno di noi per fare tre cose che prendono spunto dal nome della rivista.
La prima è guardare con attenzione. Uso il termine “guardare” di proposito, perché la meraviglia viene da lì. Meraviglia, mirabilia, viene dal latino mirari, “meravigliarsi”, riflessivo intransitivo, e da mirare, “guardare con attenzione”.
Chi fa scienza sa molto bene che guardare bene, osservare, è la cosa preliminare che si deve fare; chi fa ricerca, e anche chi è pagato per pensare, non cerca a vuoto: prima guarda quello che ha davanti e poi contempla le innumerevoli, molteplici, spaesanti geografie delle possibilità che quello che ha davanti può suggerirgli; poi sceglie che strada seguire, di che causa trovare l’effetto, cerca gli anelli saldi e quelli deboli di una catena logica, si immette in un labirinto fatto di reazioni, di effetti domino e moltiplicatori, di passaggi, di tentativi e di errori. E avanti così. Mirare allora vuol dire guardare, ma anche scegliere l’obiettivo, prendere la mira, puntare. Non è solamente meraviglia, non è stupore da fanciullino. È calcolo, è valutazione, è riflessione. Non c’è nulla di emotivo o istintivo nella meraviglia, non è poesia. È lettura attenta del mondo.
Mirare allora vuol dire guardare, ma anche scegliere l’obiettivo, prendere la mira, puntare. Non è solamente meraviglia, non è stupore da fanciullino. È calcolo, è valutazione, è riflessione. Non c’è nulla di emotivo o istintivo nella meraviglia, non è poesia. È lettura attenta del mondo.
La meraviglia o l’arte di leggere lentamente
Friedrich Nietzsche quando era ancora filologo e non ancora filosofo disse una frase all’inaugurazione dell’università di Basilea: “La filologia è l’arte di leggere lentamente”. Ecco, leggere lentamente il mondo è la ricetta, il presupposto, la conditio sine qua non per la meraviglia. Se la prima cosa è la meraviglia come osservazione riflessiva, la seconda cosa, il possibile, ha a che fare con l’immaginazione. Per fortuna o per sorte, di immaginazione mi occupo per lavoro. Non sono però pagata per immaginare, ma per spiegare da dove viene l’immaginazione, come gli esseri umani siano arrivati ai primi simboli e dunque al pensiero astratto e poi alla scrittura. Questi sono stati lunghi, lunghissimi e graduali salti che hanno portato alla proiezione di qualcosa di diverso da quello che c’è, dal fatto accidentale all’esperienza voluta, all’idea e all’idea dell’idea. Italo Calvino la chiama la forza speciale, il nodo di una rete di rapporti invisibili che compaiono quando compare qualcosa che prima non c’era. E immaginazione, etimologicamente, viene da immagine. E allora parlo di disegni, profili, proiezioni, numeri, e soprattutto, dei segni che nascono prima delle lettere. I punti zero dell’immaginato, i tentativi di interpretare il mondo, per dargli un senso e imporgli un ordine. Il salto verso i primi simboli, verso la loro rappresentazione, creata per fissarla, trasmetterla e renderla immortale. Il nostro passato ci ha regalato il ruolo più importante, almeno in questo senso: quello di trasformatori e creatori, fabbri di segni, scalpellini della natura, dalla quale noi, improvvisando e modificando il suo copione, abbiamo creato la più grande opera mai vista, tutta fatta di simboli. Perché ne parlo? Perché il nostro percorso, la nostra mente moderna nasce lì, nelle grotte di 40mila anni fa, con i labirinti di figure, dimensioni, colori. Nasce nelle emozioni di paura e sorpresa che alcune immagini evocano anche in noi, come le evocavano agli occhi delle donne e degli uomini che guardavano, o dovrei dire miravano, quei disegni. Non è cosa da poco. Disegnare, creare contorni e silhouette, è un investimento per il cervello. Creare profili su una superficie piana, in due dimensioni, di contorni e sagome, è un’azione costruttiva che richiede l’intervento di molte strategie e decisioni. Si deve mirare, in tutti i sensi, insomma.Fenomenologia della mente moderna
Questa è la mente moderna. Ha un’immagine fisica davanti a sé, di qualcosa in tre dimensioni, un bisonte, un leone, un cavallo, comincia vedendola in tutti i suoi trecentosessanta gradi di bisonte, leone e cavallo, stagliata davanti agli occhi, e poi la rende in un’immagine a due dimensioni, appiattita. Convertire qualcosa di tridimensionale in una rappresentazione bidimensionale è una cosa rivoluzionaria. Come ci siamo arrivati? Ci sono voluti millenni. Non è un caso che le prime statuine preistoriche siano ancor più antiche dei disegni. La più antica (non poco controversa) viene da Berekhat Ram, nelle alture del Golan in Israele. Una proto-Venere con le fattezze appena accennate, timide curve di dichiarazione femminile. Ha 233mila anni. Ci sono voluti migliaia di anni per iniziare a immaginare, per creare immagini, per rendere possibile l’astrazione, per rendere concreta la capacità dell’essere umano di creare cose che non ci sono, di presentificare l’assenza: di pensare l’irrealtà. E per darle forma e nome, e poi trasmetterla e renderla quella cosa che noi, spesso abusandone, chiamiamo “cultura”. Da lì nasce il fondamento e la potenzialità di un’altra cosa unicamente umana: la nostra netta, potente, insuperabile capacità di creare storie. Ma quali sono le storie da raccontare? E con questa domanda arriviamo alla terza cosa che vorrei menzionare, il taglio delle storie che raccontiamo. Come raccontiamo le storie è importante tanto quanto le storie che scegliamo di raccontare. Una delle cose che caratterizza la nostra specie umana è guardare, mirare i nostri fellow humans, e guardarli da vicino, far loro domande, giudicarli, testarli. Anche il più riservato tra noi adora fare queste cose, è così dal Pleistocene. Conoscere storie altrui e provare emozioni che derivano da esse è una cosa darwiniana, ci aiuta per la riproduzione e per la sopravvivenza. Ci aiuta a prevedere le mosse dell’altro, ad anticiparne le reazioni, per rimanere su questa Terra un po’ più a lungo.Come raccontiamo le storie è importante tanto quanto le storie che scegliamo di raccontare.È un gran peccato che tutte queste storie, che sono conoscenza, siano state storicamente divise. L’Illuminismo europeo, pur con tutti i suoi meriti, ci ha fatto un disservizio epistemologico – parlo da accademica che fa ricerca tra discipline – perché ha diviso la conoscenza in tre grandi rami: scienze naturali, scienze sociali, e studi umanistici.