“Se ami Barbie questo film è per te. Se odi Barbie questo film è per te”. Il trailer del fenomenale successo commerciale di un film destinato a infrangere un numero significativo di record al punto tale da generare un neologismo come “Barbiellion” (Barbie+Billion), ostenta in modo inequivocabile una caratteristica distintiva dei brand di successo più longevi, la capacità di agire come una forma di mitologia contemporanea intercettando, traducendo e amplificando visioni del mondo diverse, finanche contrapposte, con l’ambizione di proporne una sintesi (inevitabilmente ideologica) che infrange la distinzione tra prodotto culturale e prodotto di consumo. Tutta l’operazione del film sulla bambola Mattel è tipica della dimensione culturale e politica ostentata e in alcuni casi realmente acquisita dai brand. Un prodotto riconoscibile, quasi iconico, dove il nome della marca diventa nome comune del prodotto, viene usato per comunicare messaggi che vanno al di là del prodotto, ma obbediscono a una logica sottilmente commerciale, cioè indirizzarsi al più ampio pubblico possibile, confondendo, sintetizzando, amalgamando gli opposti.
Il valore politico del brand activism
Barbie, il film, è celebrazione di un immaginario emancipativo ma anche subalterno. Le bambine possono giocare con bambole che non sono solo mamme e figlie, da quando arriva Barbie. Ma le bambole sono comunque emblema di femminilità stereotipata – e, se si guarda a Ken, anche di maschilità altrettanto bloccata nello stereotipo. Il film mette in scena l’emancipazione da quella primitiva emancipazione: la Barbie protagonista si impadronisce di una femminilità non stereotipata, passando per le varie stazioni del femminismo del Ventesimo secolo, ridotte talvolta a sketch tra il simbolico e il kitsch. Per sovrappiù, a questo percorso fa da parallelo un percorso di liberazione/consapevolezza maschile, rappresentata dal personaggio di Ken. Ma tutto questo non porta a mettere in discussione lo stereotipo come modulo, bensì solo i contenuti specifici e contingenti di esso. Il film è un’operazione di marketing al tempo stesso sofisticata e sfacciata, un’azione di rebranding che celebra, svelandone i paradossi, l’unicità di un prodotto dalle caratteristiche uniche. Con Barbie, Mattel entra a pieno titolo nell’era del brand activism, in cui dalle marche ci si aspetta la capacità di offrire risposte credibili all’opinione pubblica, di prendere posizione, di scegliere da che parte stare all’interno di una tensione che è al tempo stesso politica, economica, sociale, culturale.
Dalla semiotica all’etica
Ed è qui che la questione semiotica diventa etico-politica. L’emancipazione dallo stereotipo si può guadagnare rimanendo interni alla cornice? Si può arrivare a restituire al femminile e al maschile la loro differenza e a donne e uomini la loro identità individuale chiamandoli ancora Barbie e Ken, cioè rimanendo interni alla logica del branding? E d’altra parte non è questa poi l’acqua in cui tutti nuotiamo sui social, dove il branding personale di identità stilizzate è l’unico modo di esistere? Forse, potrebbe essere in realtà nulla di nuovo. Da secoli, ormai, la società occidentale contraddice l’individualismo che afferma a parole rinchiudendo tutti in ruoli, anche di genere – le classi sociali erano ruoli, e ruoli sono le classi socioeconomiche, le generazioni statistiche. Chi scrive sono due maschi della generazione X, docenti universitari, bianchi, e così via. E non è questo il nostro brand? Non potremmo essere venduti, o acquistati, o non potrebbero essere venduti o acquistati i prodotti del nostro lavoro proprio in virtù della loro tipicità? Non siamo mai riusciti a uscire da tutto questo. Siamo fermi all’etica omerica, come etica dei ruoli: il guerriero, la sua sposa, l’eroe, l’indovino, l’astuto stratega. Allora, Barbie potrebbe essere una lezione involontaria sull’insostenibile e necessaria persistenza del branding, e il brand activism potrebbe essere l’orizzonte unico dell’etica e della politica. Possiamo solo riarticolare il brand che tutti abbiamo e incarniamo, rendendolo più sfumato, impadronendocene, o accontentandoci di esso. Possiamo solo dire che quello che siamo, o quello che impersoniamo, la nostra icona, in fondo, è abbastanza. Kenough, come dice Ken.