Nei Principi di psicologia (1890) di William James, il classico della psicologia americana, un riferimento obbligato delle ricerche sperimentali sulla mente per tutta la prima metà del Novecento, si afferma nel capitolo sulla memoria che “la selezione è la chiglia su cui è costruita la nostra nave mentale. E nel caso della memoria la sua utilità è evidente. Se ricordassimo tutto, ci troveremmo spesso così a mal partito allo stesso modo in cui ci dimenticassimo di tutto”. La metafora è chiara: nell’arco della propria esistenza, la mente di ciascuna persona solca il mare della realtà, conservando solo ciò che è funzionale alla sua navigazione e rigettando ciò che la ostacola. Tutte le scuole di psicologia hanno messo in evidenza la caratteristica selettiva della memoria umana che, rimanendo nella metafora, è localizzata in una stiva dalla capienza limitata. Poiché, a cominciare dai primi anni di vita, questa stiva viene riempita progressivamente di informazioni, si rischia che si arrivi al punto limite in cui non vi possa entrare più nulla, che rimangano solo le informazioni acquisite nell’infanzia mentre tutto quello che si esperisce e si conosce successivamente non troverebbe lo spazio dove depositarsi. Da adulti vivremmo con la memoria di un bambino. Per evitare questa saturazione, a un immediato filtro in entrata subentra nella stiva (la memoria) un continuo processo di riordino delle informazioni mediante o una nuova selezione (milioni di informazioni vengono cancellate) o la loro riorganizzazione più “economica”. Tuttavia si sa che talvolta accade che qualche informazione sfugga all’incessante ripulitura all’interno della memoria e che vi riaffiori come se fosse un’intrusa. Vi sono migliaia di ricerche (dalla psicologia sperimentale alla psicoanalisi) sui processi che guidano la selezione, su cosa va conservato oppure no, su come viene ristrutturato ciò che viene salvato e inoltre sui motivi per cui alcuni elementi sono resistenti alla loro distruzione. Ma la conclusione generale è quella di James: la memoria esiste in quanto esiste l’oblio o, più incisivamente, e per quanto possa apparire paradossale, va riconosciuto che per ricordare bisogna dimenticare. In psicologia non si propone un equilibrio tra la memoria e l’oblio, anzi nella dinamica tra i due processi si tende ad assegnare un ruolo prioritario all’oblio. La memoria può svilupparsi solo grazie alla forza dell’oblio.
Borges e l’uomo della memoria
Nel 1942 Jorge Luis Borges scrisse il breve racconto Funes, L’uomo della memoria (è nella raccolta Finzioni, a cura di A. Melis, Adelphi), nel quale in un’asciutta e mirabile prosa si narra dell’uruguaiano Ireneo Funes. Prima che fosse travolto da un cavallo nel tentativo di domarlo, Ireneo era noto per la sua capacità di dire, senza guardare l’orologio o i colori del cielo, che ora era a chi glielo avesse chiesto. Sembrava che vi fosse una pendola nel suo cervello e Ireneo potesse vederne, con l’occhio della mente, il movimento delle lancette, minuto dopo minuto. Poi, dopo l’incidente, per cui Ireneo rimase paralizzato, quella visione interna divenne immensurabilmente più potente: “Quando cadde, perse conoscenza; quando la riprese, il presente era quasi intollerabile per la sua ricchezza e nitidezza, così come i ricordi più antichi e più banali. […] Adesso la sua percezione e la sua memoria erano infallibili”. Ma a che prezzo? La sua memoria era invasa da un’infinita miriade di dettagli insignificanti. “Noi, in un colpo d’occhio, percepiamo tre bicchieri su un tavolo; Funes, tutti i rami e i gruppi e i frutti di un pergolato. Sapeva le forme delle nuvole australiane dell’alba del 30 aprile 1882 e poteva paragonarle nel ricordo con le venature di un libro rilegato in pelle che aveva visto una sola volta e con il tracciato della schiuma del Rio Negro alla vigilia dell’impresa del Quebracho. Quei ricordi non erano semplici, ogni immagine visiva era legata a sensazioni muscolari, termiche eccetera. Due o tre volte aveva ricostruito un giorno intero; non aveva mai esitato, ma ogni ricostruzione aveva richiesto un giorno intero.” Ireneo non riusciva a formare concetti: per lui “cane” non significava una specie animale i cui esemplari hanno determinate caratteristiche comuni, ma un cane particolare, questo o quello, e se lo ricordava come l’aveva visto in un luogo determinato e a una ora precisa.
Perdersi nei dettagli
Ma se la mente è priva di concetti, allora essa non generalizza, non astrae, e quindi il pensiero umano che naviga più sulla dimensione astratta che su quella concreta si perde nei dettagli. E, proprio per questa ragione, Ireneo non comprendeva il concetto di numero, come una entità distinta dagli oggetti cui essa possa essere applicata. Si era intestardito ad assegnare un nome concreto a ogni numero: “Invece di settemilatredici, diceva (per esempio) Máximo Pérez; invece di settemilaquattordici, La Ferrovia; altri numeri erano Luis Melián Lafinur, Olimar, zolfo, le carte di bastoni…”. Così, se il numero “quattro” fosse stato ridenominato “zolfo”, Ireneo avrebbe dovuto dire “zolfo ananas” nel caso in cui avesse voluto comprare quattro di quei frutti. Mentre Ireneo Funes è il prodotto dell’immaginazione di Borges, il protagonista di uno dei più famosi libri di Aleksandr Lurija (o Luria, come il grande psicologo russo preferiva che fosse traslitterato il suo cognome) è una persona reale vissuta nella Russia periferica dell’epoca zarista, poi negli anni turbolenti della Rivoluzione e infine nei decenni grigi e cupi dello stalinismo. In Un piccolo libro su una grande memoria. La mente di un mnemonista (1968; più volte pubblicato in italiano sotto vari titoli), Luria traccia il profilo psicologico di un uomo dalla “memoria prodigiosa”, limitandosi a pochi cenni biografici, tanto che anche il suo nome e cognome venivano dati con le iniziali, forse per rispettarne l’anonimato. A suo tempo, nell’articolo “Solomon Veniaminovich Shereshevsky: The great Russian mnemonist” (Cortex, 2013, 49, pp. 2260-2263), ne ricostruimmo la vita raccogliendo ogni informazione possibile e scoprimmo così che essa era stata tanto fuori della norma quanto lo erano state le sue capacità mnestiche.
Il passato, la memoria, l’oblio
Solomon Šereševskij nacque nel 1896 a Toržok, una cittadina a oltre cento chilometri a nord di Mosca in una famiglia ebrea, e il padre era un modesto libraio. Studiò nella locale scuola di musica, ma disturbi uditivi gli impedirono di continuare a perfezionarsi nel violino, anche se di volta in volta continuò a esibirsi in pubblico. Poco dopo aver trovato lavoro come cronista in un giornale della Mosca postrivoluzionaria, il direttore si accorse che Solomon non prendeva appunti per i fatti di cronaca che riportava in redazione – nomi, luoghi, orari erano riferiti a memoria – e gli sorse il dubbio che almeno in parte essi fossero frutto della sua fantasia. Di conseguenza s’impose, per così dire, una visita all’Istituto di psicologia di Mosca. Il trentenne Šereševskij si incontrò con il ventiquattrenne Luria, ed ebbe inizio una lunga serie di sedute, poi un’amicizia che sarebbe durata decenni. Il giovane psicologo mise in evidenza che, per ricordare un oggetto, un nome, una frase, Solomon doveva ricordare qualcos’altro. Per lui era “naturale” recitare a memoria decine di versi della Divina Commedia, ma senza apprezzarne il significato poiché non conosceva una parola d’italiano. Ricorreva a una “sua” tecnica, simile proprio a quella di Ireneo: trasformava ciascun elemento da ricordare in un altro elemento che gli sembrava più famigliare. Per esempio, per ricordare i primi quattro versi dell’Inferno “Nel mezzo del cammin di nostra vita… è cosa dura”, ciascuna parola era stata depositata nella sua memoria con qualcosa che le era simile per il suono, ma nella lingua russa, e quindi inventava e visualizzava interiormente una nuova stringa di parole dicendo a voce alta solo quelle che aveva evidenziato nella sua mente. Per esempio, “Nel mezzo del cammin” era diventato l’incipit di una nuova storia: “Io avevo pagato la quota del club, e là, nel corridoio c’era la ballerina Nel’skaja [all’epoca molto famosa]; io sono un violinista e avevo posto accanto [in russo vmeste, la cui pronuncia è simile a quella di mezzo] a lei un violinista che suonava lo strumento; vicino ci sono delle sigarette [Dely, nome di una marca]; pure lì vicino c’è un caminetto (kamin)”. Per ricordare i primi quattro elementi del testo italiano, Solomon era ricorso a ventotto elementi della lingua russa. Non sorprende quindi che la trascrizione della storia composta per ricordare solo i primi quattro versi occupasse due pagine fitte del libro di Luria.
Una catena infinita di associazioni
Dunque l’aspetto più interessante di questa strategia è che per ricordare un verso, una frase, un’equazione matematica, una scena, Solomon ricorreva ad altre parole, a immagini, a narrazioni fantasiose. Si verificava un raddoppiamento degli elementi da depositare in memoria. Però questo non era l’unico problema. Una parola, un numero, un nome si associavano indelebilmente a un suono, a un colore. Magari il “caminetto” gli avrebbe ricordato quello della propria casa, quando era bambino, e a sua volta emergeva nella memoria il crepitìo della legna che bruciava, proprio quel giorno in cui si era addormentato: una catena infinita di associazioni. E poi si sarebbe ricordato di avere ricordato questa sequela di immagini, e così via. A un certo punto, Solomon non resse più a questi film che si succedevano l’uno dopo l’altro nella sua testa. Non poté più suonare il violino (ogni suono rimandava a un’immagine e questa a un altro suono…) e neppure guadagnarsi da vivere come cronista (i suoi taccuini erano zeppi di dettagli inutili nati dalle misteriose catene dei suoi ricordi). Fece i lavori più svariati (da broker ad attore di commedie leggere, da fitoterapeuta ad autista di taxi), ma divenne soprattutto noto come fenomeno da baraccone che si esibiva nei teatri moscoviti e a richiesta del pubblico memorizzava sequenze sconclusionate di parole e numeri. Morì nel 1958, alcolizzato, ricoverato in un manicomio. Luria concluse così: “Sarebbe stato difficile dire che cosa fosse più reale per lui: il mondo dell’immaginazione, nel quale viveva, o il mondo della realtà nel quale restava sempre come un ospite temporaneo”.
Ars memoriae o l’arte di ricordare
Paolo Rossi, lo storico della filosofia, lo studioso delle “arti della memoria”, era stato affascinato dal caso del mnemonista russo (v. il suo Il passato, la memoria, l’oblio. Otto saggi di storia delle idee, il Mulino, 1991). Aveva notato che Šereševskij aveva escogitato in proprio delle strategie per ricordare senza che avesse una qualche conoscenza delle mnemotecniche, ma la somiglianza era straordinaria, a cominciare dalla tecnica dei loci, canonizzata fin dal mondo classico (ovviamente non vi è alcuna evidenza che Solomon avesse letto in proposito almeno il De oratore di Cicerone). Ma, secondo la teoria storico-culturale della mente, proposta da Lev Vygotskij e accolta dal suo collaboratore Luria, le mnemotecniche non sono propriamente processi naturali, spontanei. Sono invece l’esempio più eclatante del modo in cui la mente si avvale di “strumenti” esterni per organizzare i propri processi interni, come la memoria. Nelle popolazioni senza scrittura potevano essere le tacche sugli alberi per ricordare un percorso o l’andamento ritmico dei versi per ricordare un canto di guerra. Questi strumenti esterni si trasformano in proprietà della mente guidandola nella soluzione del problema che di volta in volta si presenta. Ed essi si sviluppano di continuo nella storia, come la scrittura e poi la stampa che hanno rivoluzionato le operazioni mentali, e in particolare la memoria affrancatasi dal peso di informazioni ridondanti, reperibili in altre stive, esterne, “artificiali” (un libro, Internet), ma in stretta simbiosi con l’attività della stiva interna, “naturale”. La mente umana si è dunque evoluta in funzione del contesto storico e culturale che mette a disposizione i suoi strumenti artificiali. E questi strumenti sono variati nelle epoche e, in una stessa epoca, nelle diverse aree geografiche e, all’interno di ciascuna area, tra i gruppi sociali che la occupano.
Oltre la teoria della Mente universale
A differenza delle altre scuole di psicologia del primo Novecento (strutturalismo, funzionalismo, teoria della forma, comportamentismo, psicoanalisi), la teoria storico-culturale, elaborata da Vygotskij, Luria e altri psicologi russi, rifiutò l’idea di una Mente universale che opera al di fuori del tempo storico e dello spazio geografico. Per esemplificare, gli stadi dello sviluppo cognitivo nel bambino secondo Piaget o dello sviluppo sessuale secondo Freud sarebbero valsi indipendentemente dai vincoli temporo-spaziali. Invece questa corrente psicologica russa, fortemente influenzata dal materialismo storico, mise in evidenza proprio la rilevanza di tali fattori nella costruzione delle menti umane reali che operano in uno specifico scenario temporo-spaziale. Introducendo queste componenti strutturali (in senso marxiano), non si può non considerare la funzione “politica” dei processi che guidano il deposito delle informazioni e delle regole di comportamento individuale e sociale nella stiva mentale, la memoria. Questa riflessione sorse non a caso in Unione Sovietica nella prima metà degli anni Trenta, quando furono rivisti i programmi scolastici della scuola elementare e media. Al di là della varietà delle lingue, dell’evoluzione storica, della struttura famigliare e sociale, e delle fedi religiose nelle varie Repubbliche in cui vivevano gli scolari, quali erano le informazioni letterarie, storiche, politiche che dovevano essere fissate nella memoria dei futuri cittadini sovietici? Gli psicologi erano propensi a una soluzione intermedia, tra il rispetto culturale dei contesti locali da una parte e l’esigenza politica di una omogeneizzazione sovietica dall’altra, ma l’autorità centrale impose un’esplicita supremazia della lingua russa con le sue regole e il suo lessico, oltre che, per esempio, la memorizzazione dei testi marxisti-leninisti e dei fatti e personaggi della storia sovietica, a discapito di altre opere letterarie e filosofiche o di altre evoluzioni storiche nella stessa Unione Sovietica oltre che nel resto del mondo. Ancora nei primi anni Settanta, ne fummo testimoni, era richiesto agli studenti universitari di enunciare a memoria le marxiane Tesi su Feuerbach, prestazione molto più “gradita” che quella di recitare i passi del Vecchio o Nuovo Testamento o del Corano.
Memoria storica e memoria individuale
È in questa macrocornice della memoria storica, dettata dal potere che controlla un gruppo sociale, una comunità o una nazione, che si inserisce e si costruisce la memoria individuale. Tra la memoria storica (o collettiva, come la chiamava Maurice Halbwachs, l’originale filosofo e sociologo francese, morto in un campo di concentramento nazista) e la memoria individuale la convivenza non è pacifica. Anzitutto per la differenza che vi può essere tra ciò che ricorda e ciò che ha dimenticato una persona, da una parte, e ciò che le viene richiesto di ricordare o dimenticare, dall’altra. Questa dinamica è emersa alla fine degli anni Novanta del secolo scorso con l’indirizzo dei memory studies, centrati sul valore della “memoria personale” rispetto al ruolo della “memoria collettiva” che finisce con l’identificarsi con la “memoria istituzionale” di una nazione, grazie sia alle celebrazioni ufficiali (“giornate della memoria”), ai monumenti, ai simboli eccetera, sia ai contributi degli stessi storici, studiosi apparentemente neutri, ma di fatto di parte per una scelta ideologica a priori o per pressioni politiche esplicite, come accadde per la storiografia sovietica (cfr. G. Gribaudi, La memoria, i traumi, la storia. La guerra e le catastrofi del Novecento, Viella, Roma 2020; sul contesto sovietico: A. Etkind, Warped Mourning. Stories of the Undead in the Land of the Unburied, Stanford University Press, Redwood City 2013). Nel continuo rinnovo di una determinata memoria (l’esempio più ricorrente è la Shoah) si è colto il rischio della saturazione e del rigetto non tanto nel numero sempre decrescente, per ovvi motivi anagrafici, di coloro che hanno vissuto personalmente l’evento traumatico, quanto nei giovani per i quali si tratta solo di un fatto storico occorso prima della loro nascita.
Memoria e potere
Però il pericolo maggiore è stato individuato nell’uso strumentale, politico o ideologico di una memoria la cui rievocazione serva a oscurare la complessità storica dell’evento, a rimandarne una ricostruzione fondata razionalmente su documenti oggettivi più che su suggestioni soggettive dalla valenza emotiva e moralistica. L’esercizio rituale della memoria che alimenta vecchi rancori e nuovi pregiudizi va sostituito con un saggio oblio che consenta una ricerca storica avaloriale e apolitica (su questo tema la letteratura è ormai vastissima: H. Weinrich, Lete. Arte e critica dell’oblio, il Mulino, Bologna 2010; A. Assmann, Sette modi di dimenticare, il Mulino, Bologna 2019; D. Rieff, Elogio dell’oblio. I paradossi della memoria storica, Luiss University Press, Roma 2019; M. Flores, Cattiva memoria. Perché è difficile fare i conti con la storia, il Mulino, Bologna 2020; P. Mieli, Terapia dell’oblio. Contro gli eccessi della memoria, Rizzoli, Milano 2020). All’oblio degli eventi storici ha comunque provveduto la natura stessa della memoria umana, sia individuale che collettiva. Se chiediamo cosa viene in mente con i nomi Babij Jar e Marzabotto, un ultranovantenne che abbia vissuto in quei luoghi può ancora ricordare con lucidità i fatti relativi, ma è molto probabile che essi non dicano nulla a un ventenne. Se la domanda verte su che cosa evochi San Bartolomeo, la risposta non dipende dall’età ma solo se abbiamo incontrato quel nome studiando storia a scuola. Quella memoria storica, che in un primo tempo è stata patrimonio comune di una o due generazioni, fondendosi o interagendo con la memoria individuale, perde il ruolo di schema di riferimento entro il quale è cresciuta la memoria personale.
Nuove forme dell’oblio nell’era digitale
L’oblio ha assunto una nuova forma nell’era digitale. Infatti è cambiata l’organizzazione stessa della memoria. La stiva artificiale – per secoli rappresentata dai libri disposti secondo l’ordine di una biblioteca e dove ciascun libro o insieme di informazioni è fisicamente distinto da tutti gli altri – è stata sostituita da un nuovo tipo di memoria artificiale depositata in una rete (Internet) che si presenta infinita e dove tutte le informazioni sono collegate tra loro. Se fino all’ultimo decennio del secolo scorso era necessario che la mente umana intervenisse per connettere le informazioni trovate nei libri, ora questo compito è assolto dai programmi del computer. Elaborazione delle informazioni, memorizzazione e riorganizzazione delle tracce sono processi sempre più delegati a un sistema artificiale. Non sono ancora del tutto chiari gli effetti della digitalizzazione della memoria, ma si possono menzionare i fenomeni che appaiono più rilevanti in base agli studi recenti (cfr. B.C. Storm e J.S. Soares, Memory in the digital age, in The Oxford Book of the Human Memory, Oxford University Press, Oxford 2021; Y. Ha, “Evolution of mediated memory in the digital age. Tracing its path from the 1950s to 2010s”, Humanities and Social Sciences Communication, settembre 2023, n. 603). In primo luogo, da una “memoria collettiva”, legata a uno specifico contesto storico-sociale, si è passati a una “memoria globale” costituita da un sistema di informazioni fornite dai più svariati contesti storici e culturali. In secondo luogo, tutti possono contribuire, senza che siano rivestiti ruoli pubblici, che si sia politici, storici o opinion leader. Inoltre non vi sono più luoghi privilegiati dove si conserva la “memoria ufficiale”, archivi e biblioteche, ma possono essere riversate nella rete ricordi e opinioni personali, foto, filmati, formando “memorie” specifiche relative a comunità e minoranze che prima non avevano questa opportunità. Si parla quindi di “democratizzazione della memoria”. Allo stesso tempo, affidandosi al deposito esterno, si svuota la stiva naturale che ciascuna mente ha a disposizione sin dalla nascita. Avendo ben poco da conservare all’interno della propria mente, viene meno il ruolo di filtraggio compiuto dall’oblio, il processo ineludibile della memoria umana finalizzato proprio alla sua salvaguardia. A decidere cosa dimenticare provvede ormai la rete, sulla quale la memoria individuale non ha più alcun potere rilevante. Una smisurata memoria globale invade dall’esterno la mente individuale che non può ricorrere ai suoi meccanismi di autosalvaguardia, proprio come accadde allo sventurato Solomon che naufragò nella rete infinita dei suoi ricordi.